Dalla frenesia dei primi giorni, con una comunicazione che sembrava sfuggire a tutte le regole (deontologiche, del buon senso) fino al cambio delle relazioni umane che ci lascerà in eredità la pandemia del coronavirus. Ne parliamo con Giampiero Vecchiato, Professore a contratto di Relazioni Pubbliche presso l'Università degli Studi di Padova nel Corso di laurea Magistrale in "Strategie di comunicazione" e storico collaboratore di NES NordEst Sanità.
Prof. Vecchiato, quando a fine febbraio ci sono stati i primi casi di coronavirus in Italia, il paese si è spaccato in due: c'era chi diceva che si stesse sottovalutando il problema, chi invece che si faceva troppo allarmismo.
La sensazione, a quasi un mese e mezzo di distanza da quando tutto è iniziato, è che ci sia stata molta confusione. Sono stati sottovalutati dei segnali: il richiamo sulla pericolosità del coronavirus da parte dell'Organizzazione Mondiale della Sanità è dei primi di gennaio. Il decreto del Governo italiano che istituiva lo stato di emergenza è del 31 gennaio. Abbiamo sicuramente scontato questo ritardo, che è anche culturale: sembra ci sia stata una negazione della gravità della questione.
Siamo un Paese abituato alle crisi?
C'è una branca della comunicazione - e in generale delle analisi strategiche - che riguarda le situazioni di crisi. Si immaginano gli scenari e si individuano le soluzioni. Il modo di affrontare l'emergenza coronavirus ci dimostra che, appunto, paghiamo un gap culturale in questo settore. Facciamo un esempio concreto, per quanto possa sembrare paradossale: dopo l'armistizio del 1940, la Finlandia aveva raggiunto un sostanziale accordo con l'Unione Sovietica. Ma temendo un improvviso attacco (chimico, nucleare) ha cominciato a fare scorta di mascherine di sicurezza. Ed oggi quel Paese ha il deposito più grande di quei presidi. I suoi dirigenti sono stati previdenti.
C'è da aggiungere anche un'altra importante variabile: secondo gli studi, la maggior parte delle crisi - stiamo parlando dell'85% dei casi - è strisciante. Vuol dire che ci sono dei segnali, per quanto piccoli, che messi in fila conducono verso uno scenario. Ecco, noi non siamo stati capaci di cogliere quei segnali, abbiamo percepito la vera gravità della crisi solo quando è scoppiato il bubbone.
La comunicazione politica, in particolare quella del Governo, non sembra essere stata sempre all'altezza della situazione.
Poteva andare peggio, ma dobbiamo dire le cose come stanno: si è sbagliato tutto. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ci ha messo la faccia, si è esposto in prima persona. Ma a che serve comunicare su Facebook e a orari così strani? Meglio ha fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a reti unificate. E penso anche che sarebbe stato meglio usare un portavoce per trasmettere certi messaggi. Un portavoce non medico, che sapesse usare il linguaggio e il tono giusto, pensando di rivolgersi a tutta la popolazione. Un'altra grave mancanza è stata quella di non inserire nel comitato tecnico-scientifico una persona attenta alle emozioni delle persone: uno psichiatra, uno psicologo. Ripeto, non è facile affrontare situazioni di questo genere, ma forse ci sarebbe voluta un po' più di umiltà e farsi affiancare da persone esperte in questo campo: in Italia ce ne sono molte.
Negli Stati Uniti il presidente trasmette dei segnali a seconda del colore della cravatta che indossa.
Se è per questo anche l'abbigliamento delle regina del Regno Unito è studiato nei minimi particolari. Certamente non si deve puntare solo su questi aspetti, non devono prevalere sul messaggio, ma altri Paesi hanno una cultura diversa, curano anche questo.
Su NES lei affronta spessissimo il tema dei rapporti interpersonali, specie tra medico e paziente. Questa emergenza certamente trasformerà il nostro modo di comunicare. Cosa accadrà nel nostro futuro?
Sono un po' preoccupato. La fisicità è una cifra distintiva degli italiani, forse anche in modo esagerato. Ma è il nostro modo per esprimerci, è un elemento di vicinanza. Se chiedi ad un amico come va e lo vuoi consolare, gli dai una pacca sulla spalla. Adesso gli esperti ci stanno facendo capire che dovremo rivedere il lessico della comunicazione non verbale, dovremo imparare a trasmettere emozioni e sensazioni senza il contatto fisico. Saranno importanti gli sguardi, i gesti. Soprattutto dovremo cambiare i contenuti. Per noi italiani, rispetto ad alcuni paesi del Nord Europa, sarà una vera e propria nuova alfabetizzazione.
Saremo in grado di farlo?
Credo di sì, per noi sarà un grande passo. L'importante è che, nel rapporto con gli altri, non prevalga la paura. Oggi, andando a prendere il giornale, ho salutato a distanza le persone che incontravo. C'era chi rispondeva, ma anche chi si ritraeva timoroso. Ieri a Treviso una signora di 70 anni è inciampata per strada. Sono passate due, tre, cinque macchine e nessuno si è fermato per paura del contagio. Alla fine, a fermarsi, è stato l'autista di un autobus. Ecco, la paura genera paralisi. E la paralisi rischia di sfociare in indifferenza.